Siamo abituati a vedere, e forse anche a pensare, il sindacato soprattutto nei luoghi “tradizionali” del lavoro: le fabbriche, la pubblica amministrazione, le strutture della grande distribuzione organizzata, i pensionati. Il mondo del lavoro dei nostri giorni, però, è caratterizzato dall’avanzare di nuovi settori produttivi, dei nuovi lavori e dal boom delle professioni freelance. Il lavoro sì è frammentato, è diventato fluido ed ha assunto mille forme e mille espressioni. Il sindacato tradizionale fa ancora fatica a rappresentare questo nuovo mondo del lavoro che presenta, per contro, diverse condizioni di fragilità. Tuttavia, non può rinunciare ad entrare in relazione con il nuovo lavoro perché è in gioco la rappresentanza e il destino del sindacato di domani. Il rischio è la marginalità. Abbiamo chiesto a Marco Bentivogli, 45 anni e da pochi mesi alla guida dei metalmeccanici della Cisl, in che modo è possibile cogliere la sfida della rappresentanza sindacale dei giovani. Ecco il suo pensiero.
Il sindacato italiano, nel suo complesso, ha una difficoltà oggettiva ad attrarre i giovani. Appare quasi “relegato” ad una rappresentanza di tipo tradizionale: grandi fabbriche, grande distribuzione organizzata, pubblico impiego e pensionati. Il mercato del lavoro di oggi, soprattutto per i giovani, è molto più complesso e frammentato e i vecchi schemi di rappresentanza non funzionano più. Qual è l’origine di questo cortocircuito?
Il sindacato italiano è ancora tra i più “rappresentativi” in Europa, secondo solo ai scandinavi per tasso di sindacalizzazione. Generalizzare va di moda, ma trascura chi si è smarcato dal declino. In Fim e in Cisl abbiamo avviato una profonda riorganizzazione per semplificare le strutture, riducendo del 50% quelle territoriali e adesso accorpando le categorie che per noi significherà costruire un’unica categoria dell’industria in Cisl. La maggioranza dei nostri iscritti è nelle aziende sotto i 100 dipendenti. Non solo, da quando abbiamo lanciato la Fim 2.0, la centralità della nostra azione si è concentrata sugli invisibili del sindacato: gli 85 lavoratori su 100 avviati al lavoro che non hanno non solo l’articolo 18 ma nessuno Statuto e sono fuori dalla contrattazione collettiva, i nuovi lavoratori e i nuovi lavori. Certo, non si può non fare autocritica, il sindacato si è occupato quasi esclusivamente di pensioni retributive e di contratti a tempo indeterminato. Non ha torti un giovane se, in passato, non si è sentito coinvolto. Tuttavia, non trascuriamo che sullo sfondo raccogliamo le ceneri di un rullaggio culturale che in questi anni ha insegnato ai giovani a cavarsela da soli e quello di matrice politica opposta, dei talk, che ha insegnato l’indignazione rabbiosa ma rassegnata, delegittimando tutti coloro che si sono battuti, senza tregua ma senza clamore, contro la crisi etica ed economica del nostro paese.
Eppure la domanda di tutele e diritti, e quindi di sindacato, è più che mai viva. Per i giovani non esiste solo un serio problema di accesso al mondo del lavoro, ma anche di iper-flessibilità contrattuale molto diffusa per quelli che lavorano. Perché ad un indebolimento della condizioni lavorativa non corrisponde un rafforzamento dell’attività collettiva?
Durante la crisi, siamo stati gli unici a restare accanto alle persone. Vero, la domanda di tutela è aumentata ma il lavoro è frammentato e la generazione di azione collettiva quando si è in pochi e lontani è difficile. Certo, bisogna ripensare nuove forme di azione collettiva capaci di integrare i frammenti, altrimenti lasceremo troppi lavoratori soli con se stessi. La tecnologia può essere di grande aiuto.
C’è un problema di linguaggio? I giovani lavoratori per potersi avvicinare al sindacato devono in qualche modo sentirlo “simile” a se stessi. Da questo punto di vista, la comunicazione, sia diretta che indiretta, le parole che vengono usate, perfino il look del sindacalista tipo, sono elementi secondari a tuo avviso oppure è anche questa una delle chiavi di lettura delle difficoltà? E’ questa la prima barriera da abbattere?
Ho chiesto ha tutti di mettere il sindacalese in sordina, ma non c’è un problema solo di linguaggio, ce ne è uno più grave di semantica, in cui il “bla bla bla, sindacale” riesce a rendere sorde anche le parole più identitarie e significative. I linguaggi sono l’espressione di codici, quando questi ultimi marcano una certa “esclusività”, denotano autoreferenzialità, declino e decadenza. Io penso che il sindacalista di oggi debba esprimere poche, chiare, significative e impegnative parole.
Cosa state facendo per avvicinare i giovani al sindacato e dare un futuro alla rappresentanza del mondo del lavoro?
Nel 2014 abbiamo riavviato il Campo Giovani Nazionale dei metalmeccanici e proprio su iniziativa dei giovani abbiamo riavviato alcuni anni fa la nostra scuola di formazione sindacale. Abbiamo rilanciato il nostro Network Giovani Metalmeccanici, affinché a partire dalla Fim il sindacato torni ad essere il luogo pubblico delle migliori aspirazioni ed energie dei giovani. Un’intera generazione ha temuto l’incontro con i giovani o al massimo li tollera come supporters. Dobbiamo inserire le generazioni, tutte, nella contrattazione e offrire percorsi di cittadinanza organizzativa e politica dentro il sindacato.
La rivoluzione digitale ha coinvolto tutti gli ambiti della nostra società, dall’economia, al lavoro ai processi di socializzazione. E’ la dimensione naturale di espressione, e non solo, delle giovani generazioni. La rappresentanza dei nuovi lavoratori, probabilmente, passa proprio dall’attivazione convinta, anche se non esclusiva, di questo canale. Il sindacato è pronto a cogliere la sfida digitale?
Abbiamo ramificato una struttura che si occupa di comunicazione digitale. Non solo, pensiamo che le sedi sindacali debbano essere ancora maggiormente luogo di accoglienza e di incontro e a aggregazione ma allo stesso tempo, la struttura sindacale, con tutta la documentazione un tempo cartacea, debba essere in una “nuvola” raggiungibile e fruibile da tutti i delegati nei luoghi di lavoro. Il nostro sindacato s’incontrerà nelle assemblee, nei luoghi di lavoro, nelle sedi di zona, ma anche nella sua versione digitale, nei social network e sul web. Arrabbiati e stufi della narrazione mediatica della crisi e del “sindacato da intrattenimento”, stiamo rilanciando, di pari passo, insieme al regista Giovanni Panozzo, dei cortometraggi sulle principali vertenze industriali. Vogliamo superare l’autocelebrazione funzionale alla creazione di personaggi e di disinformazione e riportare il lavoro nella cultura di questo paese. La cultura, per noi, non è elemento laterale, ma centrale della nostra strategia organizzativa e contrattuale.