Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con sentenza del 26 novembre 2014, resa nell’ambito di alcuni giudizi individuali, promossi da lavoratori della scuola che avevano prestato la propria attività di docenti o educatori, in qualità di supplenti annuali, con contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, per periodi compresi tra 45 e 71 mesi, alcuni dei quali, addirittura, si erano protratti complessivamente per circa un decennio.
Con sentenza del 26 novembre 2014, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha esaminato la normativa italiana che disciplina le procedure di reclutamento del personale docente e amministrativo delle scuole statali, normativa che, di fatto, autorizza lo Stato a far ricorso a ripetuti contratti a tempo determinato (cc.dd. supplenze annuali), senza limiti temporali ed in assenza di valide ragioni obiettive. La normativa in questione è stata ritenuta in contrasto con il diritto comunitario, ed in particolare con la Direttiva n. 1999/70, che, nel recepire il contenuto del c.d. Accordo Quadro Europeo, obbliga gli Stati membri ad adottare “una o più misure” volte a prevenire gli abusi derivanti dalla reiterazione di contratti a termine.
Lo Stato italiano, come noto, ha recepito la Direttiva n. 1999/70 introducendo, all’art. 5, comma 4 bis del decreto legislativo n. 368/2001, un limite massimo di durata dei contratti di lavoro a tempo determinato, che non possono superare il limite massimo di 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi. In caso di violazione del limite temporale massimo, il lavoratore ha diritto alla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, oltre al pagamento di un’indennità di importo compreso tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione.
Tali principi non sono tuttavia applicabili alle pubbliche amministrazioni, ed in particolare, per quello che qui ci interessa, non valgono per le assunzioni a termine del personale docente e amministrativo delle scuole pubbliche. L’art. 10, comma 4 bis del decreto legislativo n. 368/2001, infatti, prevede espressamente che la disciplina ordinaria sui contratti a termine, e in particolare il limite massimo dei 36 mesi, non trova applicazione nei confronti del personale docente ed amministrativo delle scuole statali.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata proprio in merito alla legittimità di questa esenzione, sancendo che le regole generali fissate in ambito comunitario, volte a prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di reiterati contratti a termine, sono applicabili a tutti i lavoratori, e quindi anche a coloro che lavorano alle dipendenze delle scuole statali.
Occorre tuttavia rilevare che la pronuncia della Corte di Giustizia riguarda solo quelle norme che consentono di fare ricorso alle cc.dd. supplenze annuali in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione del personale di ruolo. A seguito dell’indagine svolta dalla Corte, infatti, è emerso che l’ordinamento italiano non prevede alcun termine preciso per l’organizzazione e l’espletamento delle procedure concorsuali. La norma in questione, quindi, consente allo Stato italiano di reiterare sine die le assunzioni a termine del personale docente e amministrativo delle scuole statali.
Resta invece salva la facoltà di ricorrere alle supplenze temporanee per far fronte all’indisponibilità di dipendenti assenti con diritto alla conservazione del posto (es. per malattia o maternità). In tali circostanze, infatti, la Corte ritiene ravvisabile una valida ragione “sostitutiva” che giustifica sia l’apposizione della clausola del termine, sia il rinnovo dei contratti.
La Corte di Giustizia, dopo aver rilevato il contrasto con il diritto comunitario della normativa in esame, ha però lasciato impregiudicato il tema effetti della propria pronuncia. Spetterà dunque ai giudici nazionali (o, auspicabilmente, al legislatore) il delicato compito di stabilire quali siano le misure risarcitorie applicabili. Due principi, tuttavia, sono stati significativamente fissati dalla Corte. Anzitutto, le misure sanzionatorie adottate dalle autorità nazionali devono essere idonee a scongiurare e reprimere possibili abusi (principio di effettività). Le sanzioni, inoltre, non devono essere meno favorevoli di quelle previste per situazioni analoghe (principio di equivalenza).
Resta quindi da capire se, in base a tali principi, i giudici nazionali riterranno congrua la (sola) sanzione prevista dall’art. 32, legge n. 183/2010 (pagamento di un indennizzo di importo compreso tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione) o se, invece, dovranno aprirsi le porte della stabilizzazione (che però sembrerebbe preclusa alla luce dell’art. 97, comma 3 della Costituzione, laddove si prevede che “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”).
In ogni caso, al di là delle enormi problematiche connesse all’attuazione della pronuncia (su cui sarebbe necessario svolgere ulteriori approfondimenti, non possibili in questa sede), è evidente che la Corte di Giustizia ha voluto trasmettere un monito molto chiaro, che il legislatore italiano dovrebbe tenere a mente anche in futuro: nell’ambito dell’ordinamento comunitario, valgono i principi dello Stato di diritto, in ragione dei quali tutti sono uguali avanti alla legge, nessuno escluso, compreso lo Stato !