Con la sentenza n. 25015 del 25.11.2014 la Corte di Cassazione è di recente intervenuta, ancora una volta, in tema di licenziamento disciplinare per giusta causa. In estrema sintesi, il caso di specie riguarda un lavoratore che, durante l’orario di lavoro, in preda ad uno stato di ira incontrollata, scagliava contro un collega una scrivania ubicata nel magazzino, abbandonando, successivamente, il posto di lavoro e rifiutandosi di prestare soccorso al collega colpito e reclamante aiuto.
Tale condotta, determinava l’avvio di un procedimento disciplinare nei suoi confronti, conclusosi con l’intimazione del licenziamento per giusta causa. A seguito del ricorso proposto dal lavoratore avverso il predetto recesso datoriale, sia il Tribunale, sia, successivamente, la Corte di Appello di Bologna, rigettavano le domande attoree, avendo accertato la legittimità del licenziamento intimato dalla Società, sul presupposto della “intrinseca gravità comportamentale che deponeva sfavorevolmente in merito alla correttezza e regolarità del rapporto di lavoro”, aggravata, altresì, dal successivo “allontanamento dal posto di lavoro senza alcuna giustificazione”, condotta che, secondo la Corte, “confermava ulteriormente la mancanza della volontà del lavoratore di ottemperare alla disciplina aziendale”.
Avverso la suddetta pronuncia di appello il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, sostenendo l’erroneità della sentenza, sia per aver ritenuto ammissibile la testimonianza resa dal collega aggredito, il quale, secondo la prospettazione del ricorrente, non avrebbe potuto testimoniare, attesa la sussistenza di un suo interesse a partecipare al giudizio – sia per non aver adeguatamente valutato l’elemento soggettivo dell’illecito contestato, ed, in particolare, per non aver tenuto conto delle peculiari circostanze in cui la condotta era stata posta in essere.
Tali motivi non sono stati ritenuti meritevoli di accoglimento da parte della Suprema Corte, che, con la pronuncia in commento, ha integralmente confermato la sentenza di appello. In particolare, la Suprema Corte, ha anzitutto ritenuto inammissibile la censura con cui il ricorrente lamentava l’incapacità a testimoniare del lavoratore aggredito, avendo rilevato come tale questione non fosse stata “trattata in alcun modo nella sentenza impugnata” ed il ricorrente, “in violazione del (…) principio di autosufficienza del ricorso” per cassazione, non aveva indicato in quale atto del giudizio precedente tale questione fosse stata dedotta.
Peraltro, sul punto la Corte di Cassazione ha altresì escluso la fondatezza della predetta eccezione, richiamando il proprio consolidato orientamento secondo il quale “l’interesse che determina l’incapacità a testimoniare è solo quello giuridico, che comporta una legittimazione litisconsortile o principale ovvero secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati”, con la conseguenza che “tale interesse non si identifica con l’interesse di mero fatto che un testimone può avere (come, nella causa relativa alla legittimità del licenziamento, la persona aggredita dal lavoratore licenziato) a che la controversia sia decisa in un certo modo”.
Risolta tale questione di natura prettamente processuale, la Suprema Corte ha poi, rigettato anche la seconda censura proposta dal lavoratore, avendo ritenuto come la Corte territoriale avesse idoneamente “valutato l’elemento soggettivo” caratterizzante la condotta posta in essere dal lavoratore, “sottolineando la ridotta capacità di autocontrollo nell’ambiente lavorativo e soprattutto dell’intenzionalità del comportamento”.
In conclusione, con tale pronuncia la Corte di Cassazione, nel confermare la legittimità del licenziamento impugnato, ancora una volta conferma il proprio consolidato orientamento che, in tema di licenziamento disciplinare per giusta causa ed, in particolare, nel giudizio di proporzionalità tra l’addebito contestato e la sanzione espulsiva, attribuisce preminente rilevanza alla valutazione complessiva dei fatti oggetto di contestazione, tenuto conto di tutte le circostanze che possono influire sul vincolo fiduciario che deve necessariamente sussistere tra datore e lavoratore e la cui irrimediabile rottura legittima il recesso unilaterale per giusta causa.