Intervista a Francesco Cavallaro (nella foto), Segretario Generale della CISAL, un sindacato che conta 1 milione e 700 mila iscritti, nonché docente di diritto del lavoro presso l’Università telematica Pegaso, sui temi caldi della riforma del lavoro del Governo Renzi.
Segretario, partiamo dai provvedimenti del Governo Renzi sul lavoro: il decreto Poletti sui contratti a termine, diventato legge, e il più corposo disegno di legge delega sul mercato del lavoro, altrimenti noto come Jobs Act. Qual è la posizione della Cisal?
Il decreto Poletti può essere considerato, per espressa dichiarazione dello stesso Ministro, il primo dei tanti passi che il Governo intende compiere sul tortuoso terreno del mercato del lavoro con il jobs act, presentato però sotto forma di disegno di legge delega e tuttora all’esame della Camera, dopo la faticosa approvazione con la fiducia da parte del Senato. Nel merito del Decreto Poletti, le modifiche apportate riguardano la cosiddetta “acausalità” (cioè non sono richieste ragioni oggettive dell’assunzione), la durata massima di 36 mesi con un numero massimo di proroghe/rinnovi non superiore a 5 e il limite del 20% rispetto al numero dei lavoratori a tempo indeterminato. Per la Cisal, un provvedimento condivisibile, ma certamente ancora insufficiente per raggiungere i pur dichiarati obiettivi di rilancio dell’occupazione e di semplificazione degli adempimenti a carico del datore di lavoro. E’ comunque troppo presto per poterne valutare l’efficacia.
Come creare lavoro? Il sempreverde articolo 18 sta tenendo banco, come già avvenuto in passato, ed è uno dei punti di riforma del Governo Renzi che ritiene necessaria una sua riformulazione se vogliamo far tornare ad assumere le aziende. Esiste un rapporto di causa ed effetto tra abolizione dell’articolo 18 e creazione di nuova occupazione?
Francamente no. E’ semplicistico ritenere l’art.18 la causa di tutti i mali, eliminata la quale come per incanto si risolve il drammatico problema dell’occupazione. Non è così, purtroppo. Il lavoro si crea con gli investimenti. Ma è anche vero che nel tempo si è intervenuti sulla materia giuslavoristica in maniera disorganica, per non dire farraginosa ed estemporanea. Ne è derivato un groviglio di norme inestricabili e spesso contraddittorie, che oltre ad appesantire gli adempimenti burocratici, troppo spesso richiedono l’intervento del giudice i cui tempi decisionali sono tristemente noti. Messo insieme, tutto questo scoraggia non poco gli investimenti e quindi l’occupazione, oltre ad incidere fortemente sul piano della competitività del nostro Paese.
Quindi per la Cisal, se non ho capito male, l’articolo 18 può anche essere rivisto e semplificato nella logica individuata nel jobs act?
Battaglie ideologiche, è comunque sbagliato irrigidirsi su una norma (peraltro modificata nel 2012 anche se in modo discutibile laddove demanda al giudice la discrezionalità del reintegro), quasi a prescindere dall’intera riforma proposta dal jobs act. Riforma che invece la Cisal è impegnata a valutare nei suoi specifici contenuti seguendone attentamente l’iter nelle Commissioni prima ed in Aula poi. In particolare, il contratto a tempo indeterminato a tutele (meglio sarebbe parlare di garanzie) crescenti, che ci sembra vada nella giusta direzione. Rispetto al quadro complessivo che ne uscirà, saremmo anche pronti a valutare eventuali ulteriori affinamenti delle ipotesi di licenziamento. E non viceversa.
A proposito delle altre parti della riforma, è d’accordo sulla fine degli ammortizzatori sociali in deroga, già prevista peraltro nella legge Fornero, e la riforma complessiva degli altri ammortizzatori che si sta delineando?
Certo, se questo si traduce veramente nella “presa in carico” del lavoratore che perde il posto di lavoro non solo sostenendone il reddito, ma soprattutto operando concretamente, ed insisto sul concretamente, per una sua adeguata e tempestiva ricollocazione che coinvolga, secondo quanto da tempo noi sostenuto, anche l’azienda da cui proviene, oltre, naturalmente, Formazione e Centri per l’impiego finalmente efficienti ed incentivati sui risultati raggiunti. Va definitivamente superata ogni forma di assistenzialismo fine a se stesso, per destinare invece ogni risorsa disponibile, oggi troppo spesso dispersa in mille rivoli, a fini certamente di sostegno al reddito venuto a mancare, ma anche alla riqualificazione ed al tempestivo ricollocamento del lavoratore. Per la salvaguardia della sua dignità ed in generale per la tenuta della produttività del Paese.
Altro tema caldo è la drastica riduzione delle forme contrattuali cosiddette “atipiche” a tutto vantaggio della centralità del contratto a tempo indeterminato. E’ questa la via per coniugare flessibilità e sicurezza?
In linea di massima sì. Ricordo tuttavia che per la Cisal restano fondamentali due presupposti, peraltro espressamente previsti dal legislatore costituente, ma ancora non realizzati: un’effettiva democrazia sindacale ed una altrettanto effettiva democrazia economica. La prima che, attraverso l’attuazione dell’art. 39, dia al sindacato legittimazione e responsabilità, tanto più necessarie in un mercato del lavoro globale, competitivo e strutturalmente flessibile che perciò stesso, comportando anche mobilità, pretende una effettiva corresponsabilità sociale di tutti gli attori nella ricerca, nella difesa e nella valorizzazione del ruolo e della dignità del lavoro e dei lavoratori. La seconda, strettamente connessa alla prima, che dia attuazione all’art. 46 e realizzi la partecipazione del lavoratore alla gestione dell’impresa, nell’ottica della pari dignità capitale/lavoro. Le previsioni, nel jobs act, dell’introduzione del reddito minimo, di uno sviluppo/valorizzazione della contrattazione decentrata e di un più efficace contrasto al fenomeno del lavoro nero e del caporalato, se concretamente realizzate, vanno nella direzione auspicata da noi auspicata.
L’industria e il manifatturiero italiano. Siamo in piena deindustrializzazione: siamo passati dal 5° all’8° posto nel mondo come paese manifatturiero. In che modo è possibile fermare il processo continuo di chiusura e delocalizzazione delle fabbriche dall’Italia? Il recente accordo Electrolux è un modello?
Per fermare il processo di deindustrializzazione e del connesso malvezzo della delocalizzazione, la risposta sarebbe soltanto una: abbassare drasticamente la pressione fiscale ed in particolare il costo del lavoro attuando, cioè, politiche di bilancio espansive. Sappiamo tuttavia che tale rimedio dovrebbe essere condiviso a livello europeo e che al momento i vincoli, politici e non, prevalgono e lo impediscono. Sappiamo anche, però, che intanto il Governo potrebbe procedere, disponendo della delega fiscale, ad una riforma radicale dell’attuale sistema, introducendo strutturalmente il “contrasto di interessi” in grado, di recuperare buona parte dei circa 180 miliardi di vergognosa evasione annua. Il recente accordo Elettrolux può sicuramente essere replicato, ma non può da solo rappresentare la soluzione.
Giovani e lavoro: il piano garanzia giovani. I primi risultati non entusiasmano. Da dove partire per riformare e rilanciare le politiche attive del lavoro?
A oltre quattro mesi dal lancio del programma europeo finalizzato a trovare lavoro o corso di formazione a giovani under 30, il risultati sono deludenti. Tra l’altro, con una percentuale sconfortante di potenziali interessati (45%) che non ne ha saputo nulla ed un altrettanto sconfortante 35% che ne ha soltanto sentito parlare. Incredibile con l’altissima percentuale di disoccupazione giovanile nel nostro Paese. Disinformazione? Certamente, ma soprattutto carenza di progettualità, scarsa collaborazione delle Regioni e conseguente mancanza di fiducia. Da dove partire, quindi, per efficaci politiche attive del lavoro, oltre che da una buona attuazione della riforma in corso, se non da un mix organico e strutturale di scuola-mondo del lavoro – semplificazione procedurale – informazione e formazione ? Intanto, è dovere del Governo e del Ministro Poletti intervenire per evitare che Garanzia Giovani si aggiunga alle tante delusioni del passato.
Come vede la Riforma della Pubblica Amministrazione e le sue conseguenze sull’efficienza del lavoro pubblico, oltre all’iniziale decreto che ha dimezzato permessi e distacchi sindacali?
Partiamo dal Decreto Madia, ormai legge 90, e dal dimezzamento dei distacchi e permessi. Premesso che la Cisal non ne ha mai abusato, quel che va censurato al di la del merito è il metodo usato, impensabile nei confronti di un qualsiasi altro settore di lavoro privato. Per dirla in gergo calcistico, si è trattato di un vero e proprio intervento a gamba tesa nel campo dell’autonomia contrattuale, nonostante siano anni ormai (1993) che il rapporto di pubblico impiego è stato privatizzato. Evidentemente solo a parole! Lo conferma il reiterato blocco dei rinnovi contrattuali. Per quel che riguarda il Ddl delega per l’ennesima Riforma della Pubblica Amministrazione, la Cisal e le sue Federazioni di settore hanno avuto modo di esprimere le proprie riserve prevalentemente motivate dal fatto che anche per questa riforma il legislatore non si è chiesto, né ha spiegato il perché del fallimento delle precedenti. In particolare, abbiamo sempre ritenuto prioritario, anzi pregiudiziale ad ogni credibile iniziativa di riforma , un collettivo “mea culpa” da parte della politica, quale primo atto, per la totale eliminazione di quel sottobosco da essa stessa creato ed alimentato, che ha ridotto gran parte della Pubblica Amministrazione ad un vero e proprio terreno di conquista. Il sindacato, certamente la Cisal, ma anche la stragrande maggioranza dei lavoratori pubblici, non si opporrebbero mai ad una riforma che partisse da qui. Perché sono profondamente consapevoli della necessità per il Paese, specie in questo drammatico momento di crisi, di una P.A. capace di fornire valore aggiunto ai cittadini e alle imprese. Così come sono altrettanto convinti della necessità di una profonda riorganizzazione e di un coraggioso ricambio generazionale, che restituiscano dignità alla funzione pubblica e a chi la eserciti con merito, con onestà, con economicità, con vera trasparenza e, non ultimo, con il massimo senso di responsabilità. A tutti i livelli!
Da più parti si parla di crisi di rappresentanza del sindacato sopratutto nei nuovi settori: in che modo avvicinare il sindacato ai giovani?
Il richiamo alla democrazia sindacale e al modello partecipativo sopra ricordati, risponde in parte alla domanda. Il senso di sfiducia diffuso fra i giovani riguarda purtroppo anche il sindacato, a torto o a ragione accusato di scarso interesse alla cosiddetta mobilità sociale e quindi a ricambi generazionali organici ed armoniosi. La risposta non può che essere quella di un sindacato che si rivolga alle nuove generazioni con umiltà, ma anche con la profonda consapevolezza di essere portatore di una visione strategica che veda finalmente riconosciuto alla componente lavoro un ruolo non subalterno, ma paritario rispetto alle altre componenti e quindi essenziale alla crescita nell’equità e nel benessere dell’intero Paese.
Nella Legge di Stabilità, tra le altre cose, si ipotizza di mettere in busta paga tutto il TFR maturando o parte di esso. Cosa ne pensa?
Temo che si privilegino ancora una volta “piccole misure senza ambizioni”, come titola un recente articolo di fondo del Corriere della Sera. Un più coraggioso taglio delle imposte, specie sul lavoro, sarebbe sicuramente la misura più efficace per rimettere in moto l’economia. Ovviamente, purché si tratti di tagli effettivi e non di semplici previsioni contabili di difficile o, come molti economisti ritengono, impossibile realizzazione. Ebbene, per rispondere alla sua domanda, illudersi che in una tale situazione il TFR in busta paga possa essere una soluzione, non è solo un errore, è una grossa ingenuità (per non dire altro) che tenta di spacciare per risorse aggiuntive soldi già di esclusiva proprietà dei lavoratori. Da notare il solito fiorellino sulla torta: sarebbero esclusi dal presunto “beneficio” i dipendenti pubblici. Ma non per un occhio di riguardo. Semplicemente perché il datore di lavoro Stato il TFR lo accantona in modo “virtuale”!