L’invio di un’email contenente frasi offensive ai superiori può comportare il licenziamento del lavoratore irrispettoso.
E’ questo, in sintesi, quanto statuito dalla Cassazione, con la recente sentenza n. 14995 dello scorso 7 settembre. In particolare, la Suprema Corte, riprendendo quanto stabilito in appello, ha respinto il ricorso del lavoratore, volto ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento e la conseguente reintegra nel posto di lavoro, precisando che il licenziamento poteva ritenersi giustificato in ragione del contenuto diffamatorio delle frasi trasmesse dal dipendente per posta elettronica all’indirizzo dei suoi superiori.
Inoltre, la Corte ha osservato, negando quanto asserito invece, dal ricorrente, circa l’esistenza di un comportamento vessatorio da parte datoriale dal quale sarebbe scaturito l’invio della “e-mail”, che, dalla complessiva istruttoria, non emergeva alcun intento persecutorio nei confronti del dipendente, dal momento che il demansionamento appariva riconducibile prevalentemente ad una “mala gesto” aziendale.
A fronte di ciò, dunque, viene esclusa la sussistenza di mobbing e giudicato inescusabile il comportamento del lavoratore. I Giudici hanno ritenuto la sanzione espulsiva proporzionata alla gravità dei fatti, in considerazione oltre che della diffusione della email tra più persone che non erano solo i diretti destinatari, soprattutto per la gravità delle espressioni usate che andavano ben oltre il diritto di cronaca: espressioni perfettamente riconducibili alle fattispecie penali dell’ingiuria e della diffamazione.
Tale decisione, in linea con l’orientamento giurisprudenziale consolidato, ci offre lo spunto per richiamare alcuni principi cardine in materia di licenziamento disciplinare.
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ravvisare la sussistenza della «giusta causa» di cui all’art 2119 c.c. in tutti quei comportamenti del lavoratore – anche extra-aziendali, talmente gravi da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto: ciò differenzia il licenziamento per giusta causa da quello per giustificato motivo soggettivo: quest’ultimo è, infatti, determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, non così grave da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto. Pertanto, in tal caso, il datore di lavoro ha l’obbligo di dare il preavviso.
L’accertamento dell’effettiva sussistenza di una giusta causa di licenziamento prevede, in primis, la valutazione della lesione del vincolo fiduciario: quest’ultima, com’è noto, va valutata in concreto, sia sotto il profilo oggettivo (ad. es. natura e qualità del singolo rapporto di lavoro; posizione delle parti; il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni svolte dal lavoratore nell’organizzazione imprenditoriale; circostanze di tempo e di luogo in cui il fatto si è verificato e i motivi) che quello soggettivo (particolari circostanze e condizioni in cui è posto in essere; ai suoi modi, ai suoi effetti, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo).
In merito alla contestazione degli addebiti, il lavoratore deve essere posto in grado di conoscere quanto gli viene imputato, mettendolo pertanto, in condizioni di potersi difendere.
Altro elemento costitutivo dei licenziamenti per giusta causa è l’immediatezza della contestazione: in merito, è da precisarsi che l’immediatezza deve essere intesa in senso relativo, dovendosi valutare, di volta in volta, la necessità di svolgere indagini per ricostruire la condotta del lavoratore, ovvero la necessità di tenere conto della complessità della struttura organizzativa del datore di lavoro o della peculiare posizione lavorativa dello stesso dipendente. Circostanze, queste ultime, che possono fare ritardare il momento della effettiva percezione e del conseguente accertamento quale giusta causa dei fatti contestati.
Infine, da tenere in considerazione è il principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione: occorre che la mancanza di cui il dipendente si è reso responsabile rivesta una gravità tale che qualsiasi altra sanzione risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro: il che implica l’idea secondo la quale il licenziamento viene valutato anche in connessione con l’accertata inadeguatezza delle sanzioni minori a proteggere l’interesse datoriale (c.d. extrema ratio).
Ai fini di valutazione di proporzionalità della sanzione, riveste un ruolo importante la disposizione di cui all’art. 30, c. 3 L. 183/2010 la quale stabilisce che nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione: pertanto, forse una maggiore valorizzazione delle tipizzazioni collettive di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento potrebbe risultare funzionale alla produzione di esiti giudiziari meno imprevedibili.
Ordunque, la sentenza de qua, in applicazione dei principi sopra richiamati, ha concluso per la legittimità del licenziamento del lavoratore alla luce dei fatti che lo determinarono (contenuto diffamatorio delle espressioni adoperate dal lavoratore attraverso l’invio dell’email), dell’aspetto soggettivo del comportamento del lavoratore al momento del fatto, dei precedenti comportamenti della insubordinazione e della proporzionalità della sanzione rispetto all’entità dell’addebito contestato.
Infine, è d’uopo ricordare la diversa statuizione cui è pervenuto recentemente il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 15 ottobre 2012, la quale in applicazione del nuovo art. 18 St. Lav., ha ordinato la reintegrazione del lavoratore licenziato, anche in tal caso, in relazione al contenuto offensivo di una mail inviata al suo superiore. Il giudice, contestualizzando il fatto compiuto, ha concluso, pur riscontrando la sussistenza materiale del fatto contestato, che “sotto il profilo della valutazione della gravità del comportamento addebitato, lo stesso non è idoneo ad integrare il concetto di giusta causa di licenziamento”.
A cura dell’Avvocato Francesco Rotondi