Sono sempre di più gli italiani che ‘lavorano per i cinesi’, cioè che sono impiegati nelle aziende e multinazionali di proprietà cinese sbarcate nel nostro Paese. A fornire le cifre a Labitalia è Marco Mutinelli, ordinario di Gestione aziendale dell’università di Brescia e responsabile della banca dati sull’internazionalizzazione Reprint Ice-R&P-Politecnico di Milano. “Oggi stimiamo – spiega Mutinelli – che operino in Italia 327 multinazionali cinesi e di Hong Kong che impiegano 18.300 dipendenti italiani. Tra queste multinazionali ci sono quelle che operano indirettamente in Italia, perché hanno acquisito aziende di altri Paesi che hanno uno stabilimento sul nostro territorio”.
Gli investimenti, e i posti di lavoro creati, spaziano dall’informatica alla cantieristica. “Per esempio c’è Huawei, azienda che produce smartphone altro materiale elettronico – spiega Mutinelli – che sta investendo tanto nell’area tra Milano e Torino assumendo personale per lo sviluppo del software e dell’attività commerciale, mentre l’attività produttiva resta naturalmente in Cina. La maggior parte degli investimenti delle aziende si concentra nello sviluppo ingegneristico e nel design”.
Per gli investitori cinesi il nostro Paese rappresenta una porta d’ingresso nel ‘top’ di alcuni settori del made in Italy. “Ad esempio, l’azienda cinese che ha acquisito la Ferretti – spiega Mutinelli – è entrata dalla ‘porta principale’ nel settore della produzione di yacht di lusso, in cui l’Italia è leader”.
Secondo Mutinelli, “quello delle aziende cinesi che investono e assumono in Italia è un fenomeno nuovo che sta muovendo i primi passi e che può solo crescere”. “A dare la spinta giusta – dice – può essere anche il programma ‘Global’ del governo cinese che spinge a crescere oltre confine. E anche l’acquisizione da parte della Banca centrale cinese di azioni delle grandi aziende italiane è una testimonianza dell’attenzione verso il nostro Paese e la nostra economia”.
Per l’Italia si tratta di un ‘treno’ importante, da non perdere. “E’ importante attrarre i primi investimenti delle aziende cinesi in Europa -spiega – in modo da poter fare da ‘ponte’ alle successive attività nel Vecchio Continente. Ne trarrebbe grande beneficio l’economia e non si farebbe lo stesso errore fatto negli anni ’70-80 con gli investitori giapponesi, che ci facemmo sfuggire”.