Franco Di Dio Magri è docente di marketing e comunicazione presso numerose università italiane e Vice Presidente di HR Community, un autorevole network di circa 300 dirigenti del settore risorse umane. Lo abbiamo incontrato per conoscere il punto di vista dei direttori del personale sulla riforma del mercato del lavoro in un contesto produttivo fortemente flessibile.
Partiamo da un dato di fatto: perché le aziende hanno bisogno di un modello di organizzazione del lavoro flessibile e duttile e di conseguenza di contratti di lavoro flessibili?
Guardiamoci in faccia: il vaso di Pandora, ormai, che lo volessimo o no ha finito per scoperchiarsi. Con lui tramontano un mondo ed un sistema antiquati, destinati forse a sopravvivere solo nelle dolci ma ingannevoli memorie di quanti – i nostalgici e gli irriducibili – trascorrono ancora una bella quota del loro tempo sognando una vita ed un lavoro che appartengono al tempo che fu. Il mondo, insomma, è cambiato, rivoluzionandosi in una maniera e secondo un ritmo assolutamente, imprevedibilmente repentini. In un mercato che viaggia alla velocità della luce, il general-generico mutamento finisce per indurre cambiamento anche nell’organizzazione di un’azienda che è sempre più chiamata al confronto continuo con un panorama iper-competitivo. Un panorama, questo, che è ormai inadatto a concepire e caldeggiare concetti ormai agé, e che anzi si ispira ad una rinnovata mobilità, di capitali come di persone, ad una dinamica di percorso che è antitesi esatta della cristallizzazione professionale del posto fisso. La nostra si connota al pari dell’epoca della flessibilità proprio per questo motivo: perché soltanto ad una risorsa flessibile è consentita la libertà di movimento e di prospettiva che può consentire di intercettare e sfruttare a proprio vantaggio le macro-dinamiche di sistema. Essere flessibili è l’unico modo di risalire l’onda e cavalcarla senza farsi da essa sopraffare.
Nel linguaggio comune c’è una forte confusione semantica tra le espressioni e le tante parole che definiscono la flessibilità e la confondono con la precarietà. Per lei i due termini sono distinti? Se si quali sono le differenze di fondo?
Concordo nella maniera più categorica. Uno degli inconsapevoli ma assoluti paradossi della nostra modernità è la scarsa e tutt’altro che agevole possibilità di scindere in maniera netta e consapevolmente propositiva la prospettiva della flessibilità, da un lato, e quella della precarietà dall’altro. Ovviamente, da quanto appena puntualizzato credo emerga con sufficiente nettezza il mio pensiero in proposito. Lo ripropongo comunque qui di seguito in maniera più diretta: flessibilità non è un sinonimo di precarietà. Laddove infatti alla prima assegniamo con piacere il carattere epocale che di necessità le deriva in quanto consapevole risultato di un processo di adattamento attivo al mutare dei tempi ed all’insorgere di differenti esigenze poste in essere dal mercato, della precarietà non posso che dipingere il quadro a tinte fosche che la semantica già di per sé suggerisce. Un quadro che non evoca altro che destini effimeri, oltre al costante – depauperante – oscillare su di un baratro di assoluta ed impotente incertezza. Ora, finché ci atteniamo alla pura astrazione teorica, nulla da ridire. Il problema vero, quello del quale dobbiamo certamente preoccuparci, si origina invece nell’esatto momento in cui caliamo questi due concetti nella pratica quotidiana. Perché all’atto pratico, dovremmo tutti sforzarci – e grandemente – di concepire ed introiettare la flessibilità, scindendola dalla carica deflagrante che è propria invece della precarietà, quale principio d’azione utile a poter in qualche forma almeno governare il cambiamento che è leit motiv dei nostri giorni. Ne va della nostra evoluzione.
Il Governo Renzi sta affrontando i temi del lavoro con un certo decisionismo: tra le riforme più importanti in cantiere c’è il cosiddetto contratto a tutele crescenti con lo scopo dichiarato di dare una sforbiciata ai tanti contratti di lavoro esistenti e al loro abuso e favorire la stabilizzazione dei rapporti di lavoro. E’ credibile pensare di raggiungere questi risultati con un nuovo contratto come quello proposto? La convince?
Prendendo a prestito il fascinoso titolo a suo tempo impiegato dallo svizzero – ma partenopeo! – Hans Reusch per uno dei suoi migliori romanzi, il nostro è un Paese dalle ombre lunghe. Radicatosi cioè in un sistema di credenze, pensieri, usi e costumi che col tempo si è cristallizzato (forse atrofizzato) a dispetto dell’evolversi della società globale, oggi si trova a fronteggiare un contatto che sembra del tutto inatteso con il nuovo mercato, quello dell’epoca della crisi. In questo clash vengono di necessità messi in discussione in generale tutti quelli che sembravano essere i puntelli incrollabili di una società intera. Scendendo nel particolare, sale quindi sul banco degli imputati anche la giungla dei contratti all’italiana. E questo è un bene assoluto. Nel senso che anche il semplice buon senso potrà suggerirvi che, laddove le alternative di risposta ad un quesito diventino molte (troppe?), cresce automaticamente anche la possibilità di fornire ad esso la risposta sbagliata. La chiarezza, insomma, è sempre un ottimo viatico di progresso. Ovviamente, lo sforzo di bonifica del nuovo esecutivo non dovrà limitarsi ad un intervento chiarificatore. Una parte fondamentale dell’accreditamento in fieri del Governo Renzi, insomma, transiterà attraverso la predisposizione di uno strumento contrattuale non solo chiaro, ma soprattutto funzionante, e certamente implementabile con successo nel caso specifico. Quello del Paese dalle ombre lunghe.
Un tema legato alla riforma dei contratti di lavoro è il ricorrente, a tratti stucchevole, scontro sull’articolo 18. E’ così importante modificarlo e, se sì, quali risultati concreti porterebbe? Oppure è solo un tema che serve al confronto politico con scarse ricadute sul mercato del lavoro?
Non più tardi dello scorso lunedì leggevo sull’Espresso un pezzo che credo possa essere illuminante in proposito. Soprattutto perché al suo interno l’autore, Marco Damilano, si prendeva la briga di puntualizzare e documentare il fatto che la battaglia sull’articolo 18 che vediamo riproposta ai giorni nostri sia cosa che in realtà arriva da lontano. Più che di un problema d’attualità, insomma, staremmo discutendo di un principio storico che, nell’arco di anni, ha fatto sì che il dibattito si sviluppasse a tal punto da ricordare – paurosamente – la matassa di pirandelliana memoria. Un groviglio di prese di posizione, allarmi veri e presunti, modelli stranieri (ricordate la flexecurity danese che un tempo esaltava ed oggi sconcerta?) sbandierati e poi abbandonati, eccetera. Oggi, ad anni di distanza da quando tutto cominciò, dobbiamo prendere atto che la querelle, lungi dall’essere giunta a degna conclusione, divampa ancora. Auguriamoci, allora, di non essere semplicemente tornati al “Via”. Auguriamoci, ancora, che non si tratti davvero di un nodo di Gordio, che come tale per essere risolto non può che essere distrutto, senza riguardo alcuno per chi poi in concreto sarà chiamato a risponderne: il nostro Paese e le Persone che ne compongono l’anima.
L’altra faccia della flessibilità sono le politiche attive del lavoro. In altri termini dobbiamo potenziare e riformare gli strumenti di ricollocazione delle persone e sviluppare la loro occupabilità. Quale potrebbe essere la strada migliore in questo senso? E’ vero che esiste un corto circuito tra le figure professionali che cercano le aziende e quelle realmente presenti nel mercato del lavoro?
Quelli bravi la chiamano employability. Lo dico con cognizione di causa, nel senso che appena al principio di questa settimana (lunedì 29 settembre), abbiamo tenuto a Milano l’edizione 2014 della Tavola Rotonda HRC con il Welfare, macro-evento di caratura istituzional-giuslavoristica che la nostra Community realizza ogni anno al fine di riunire allo stesso (gigantesco!) tavolo Direttori e Uomini d’azienda, Istituzioni, Technical Advisors, Giovani e Stakeholders a vario titolo gravitanti non solo attorno a HRC ma, più in generale, al mondo del Lavoro. Per la seconda volta, grazie all’indefesso lavoro di un organo collegiale che abbiamo messo a punto quale locus di riflessione propositiva sull’Occupazione, l’HRC Welfare Committee, siamo stati in grado di approntare un Memorandum contenente la “ricetta” dei Direttori per incidere sul mercato del lavoro. Al suo interno, la primissima voce contemplata era per l’appunto costituita da Employability (occupabilità) e Politiche Attive. Un’area di intervento, questa, che i nostri esperti di Lavoro (che godono peraltro della possibilità di tastare il polso del mercato dall’interno del Lavoro stesso, cioè da dentro le aziende) ritengono dirimente per incidere in senso benefico sul cortocircuito originatosi sull’originale saldatura bisogni/risorse. Guardiamo al nostro Paese: il mercato italiano soffre per un’assenza sistemica, quella dell’Orientamento. E’ su questo fronte, signori, che si gioca la battaglia universale della nostra epoca. Orientare giovani e diversamente giovani non solo per renderli maggiormente consci delle potenzialità accumulate (e dunque spendibili) sul mercato, ma anche per restituire loro un appiglio solido nel mare magno di un fortunale, quello della crisi più dura di sempre, che altrimenti fagocita ed annichilisce. Lato nostro, in ossequio ad una volontà di ferro che abbiamo raccolta e fatta nostra , e che ci è giunta con insistenza sempre maggiore proprio dal novero dei nostri Direttori, abbiamo generato il filone degli HRC Talent Days, classi di orientamento informativo rivolte ai figli dei dipendenti delle nostre aziende, che al loro interno ricevono quel vademecum di informazioni, spunti, consigli e direttive che, altrove, non sarebbero in grado di reperire. E’ un progetto ongoing – sempre come dicono quelli bravi – nel senso che faremo del nostro meglio per farlo crescere e portarlo ancor più in alto del successo sinora raggiunto. Un successo da 1500 partecipanti e 150 testimonial in appena un anno, che testimonia il nostro personalissimo, sincero e più che dovuto contributo al futuro migliore dell’Italia in cui non abbiamo affatto smesso di credere.